A gennaio 2016 il World Economic Forum ha pubblicato un rapporto intitolato “The Future of Jobs – Employment, Skills and Workforce Strategy for the Fourth Industrial Revolution”.
La ricerca, partendo dalla situazione fotografata al 2015, illustra l’evoluzione del lavoro nei cinque anni a venire, e cioè fino al 2020, sulla base delle indicazioni raccolte tra i responsabili delle Risorse Umane di 350 tra le maggiori aziende mondiali, ed evidenzia come nel corso dei cinque anni in esame fattori tecnologici (primo fra tutti la cosiddetta “quarta rivoluzione industriale”, il cui avvio viene fissato appunto al 2015) e demografici influenzeranno profondamente l’evoluzione del lavoro.
La conseguenza sarà la perdita di 7 milioni di posti di lavoro – che colpirà per il 68,5% le aree amministrative e per il restante 31,5% quelle della produzione -, compensata solo parzialmente dalla creazione di 2 nuovi milioni di posti di lavoro, che riguarderanno l’area finanziaria, il management, l’informatica e l’ingegneria.
Se vogliamo guardare al nostro “piccolo orticello”, va detto che l’Italia ne uscirà sostanzialmente indenne, in quanto si prevede che nel nostro Paese la rivoluzione in atto distruggerà 200.000 posti di lavoro ma ne creerà altrettanti, posizionandoci quindi una volta tanto meglio di altri paesi europei ed occidentali (tra cui Francia e Germania).
Il rapporto offre molti spunti di riflessione interessanti, fra i quali merita sicuramente un’attenzione speciale la previsione – incoraggiante ed auspicabile – che molti dei cambiamenti attesi nel mondo del lavoro potranno potenzialmente consentire la riduzione delle differenze di genere in svariati settori.
L’aspetto sul quale vogliamo concentrarci in questa occasione riguarda però la questione skill, il loro rapporto con le nuove tecnologie e come, per effetto dell’industria 4.0, cambieranno le competenze e abilità ricercate.
Da un punto di vista tecnologico, la quarta rivoluzione industriale ruota intorno a nove tecnologie definite abilitanti: sistemi avanzati di produzione, ovvero sistemi interconnessi e modulari che permettono flessibilità e performance; sistemi di produzione additiva che aumentano l’efficienza dell’uso dei materiali; sistemi di visione con realtà aumentata; simulazione tra macchine interconnesse per ottimizzare i processi; integrazione e scambio di informazioni in orizzontale e in verticale, tra tutti gli attori del processo produttivo; comunicazione tra elementi della produzione, interni ed esterni all’azienda, grazie all’utilizzo di internet; implementazione di tutte le tecnologie cloud come lo storage online delle informazioni, l’uso del cloud computing e di servizi esterni di analisi dati, ecc. ; cyber-security; big data analytics per previsioni e predizioni sempre più mirate e puntuali.
Ma l’Industria 4.0, ed è questo il dato che ci sembra rilevante, non significa solo tecnologia e non punta solo su di essa. La rivoluzione, anche quella tecnologica, è sempre e prima di tutto una rivoluzione organizzativa, di change & transformation management, per cui la capacità di gestire la trasformazione in termini di obiettivi e di benefici attesi rappresenta in ultima analisi sempre e comunque il vero fattore abilitante. Ecco quindi che entrano in gioco le competenze umane necessarie a supportare la rivoluzione del mercato del lavoro: ai primi tre posti, secondo il rapporto del World Economic Forum, nel 2020 ci saranno il complex problem solving seguito dal pensiero critico e dalla creatività. Una vittoria delle social skill sulle skill tecniche, che ci deve far riflettere sulla rinnovata, o meglio riconfermata, centralità del capitale umano, anche in un’epoca di inarrestabili ed imprescindibili trasformazioni tecnologiche.

Lo Staff di PME

A gennaio 2016 il World Economic Forum ha pubblicato un rapporto intitolato “The Future of Jobs – Employment, Skills and Workforce Strategy for the Fourth Industrial Revolution”.
La ricerca, partendo dalla situazione fotografata al 2015, illustra l’evoluzione del lavoro nei cinque anni a venire, e cioè fino al 2020, sulla base delle indicazioni raccolte tra i responsabili delle Risorse Umane di 350 tra le maggiori aziende mondiali, ed evidenzia come nel corso dei cinque anni in esame fattori tecnologici (primo fra tutti la cosiddetta “quarta rivoluzione industriale”, il cui avvio viene fissato appunto al 2015) e demografici influenzeranno profondamente l’evoluzione del lavoro.
La conseguenza sarà la perdita di 7 milioni di posti di lavoro – che colpirà per il 68,5% le aree amministrative e per il restante 31,5% quelle della produzione -, compensata solo parzialmente dalla creazione di 2 nuovi milioni di posti di lavoro, che riguarderanno l’area finanziaria, il management, l’informatica e l’ingegneria.
Se vogliamo guardare al nostro “piccolo orticello”, va detto che l’Italia ne uscirà sostanzialmente indenne, in quanto si prevede che nel nostro Paese la rivoluzione in atto distruggerà 200.000 posti di lavoro ma ne creerà altrettanti, posizionandoci quindi una volta tanto meglio di altri paesi europei ed occidentali (tra cui Francia e Germania).
Il rapporto offre molti spunti di riflessione interessanti, fra i quali merita sicuramente un’attenzione speciale la previsione – incoraggiante ed auspicabile – che molti dei cambiamenti attesi nel mondo del lavoro potranno potenzialmente consentire la riduzione delle differenze di genere in svariati settori.
L’aspetto sul quale vogliamo concentrarci in questa occasione riguarda però la questione skill, il loro rapporto con le nuove tecnologie e come, per effetto dell’industria 4.0, cambieranno le competenze e abilità ricercate.
Da un punto di vista tecnologico, la quarta rivoluzione industriale ruota intorno a nove tecnologie definite abilitanti: sistemi avanzati di produzione, ovvero sistemi interconnessi e modulari che permettono flessibilità e performance; sistemi di produzione additiva che aumentano l’efficienza dell’uso dei materiali; sistemi di visione con realtà aumentata; simulazione tra macchine interconnesse per ottimizzare i processi; integrazione e scambio di informazioni in orizzontale e in verticale, tra tutti gli attori del processo produttivo; comunicazione tra elementi della produzione, interni ed esterni all’azienda, grazie all’utilizzo di internet; implementazione di tutte le tecnologie cloud come lo storage online delle informazioni, l’uso del cloud computing e di servizi esterni di analisi dati, ecc. ; cyber-security; big data analytics per previsioni e predizioni sempre più mirate e puntuali.
Ma l’Industria 4.0, ed è questo il dato che ci sembra rilevante, non significa solo tecnologia e non punta solo su di essa. La rivoluzione, anche quella tecnologica, è sempre e prima di tutto una rivoluzione organizzativa, di change & transformation management, per cui la capacità di gestire la trasformazione in termini di obiettivi e di benefici attesi rappresenta in ultima analisi sempre e comunque il vero fattore abilitante. Ecco quindi che entrano in gioco le competenze umane necessarie a supportare la rivoluzione del mercato del lavoro: ai primi tre posti, secondo il rapporto del World Economic Forum, nel 2020 ci saranno il complex problem solving seguito dal pensiero critico e dalla creatività. Una vittoria delle social skill sulle skill tecniche, che ci deve far riflettere sulla rinnovata, o meglio riconfermata, centralità del capitale umano, anche in un’epoca di inarrestabili ed imprescindibili trasformazioni tecnologiche.

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